San Cipirello, confermata in appello la restituzione dei beni a Simonetti

Non ci sono prove sulla provenienza illecita. Confermata in Appello la restituzione dei beni sequestrati a Giovanni Simonetti, difeso dagli avvocati Alessandro Campo e Vito Ganci. Tornano dunque all’imprenditore agricolo sancipirellese aziende, terreni, conti correnti e fabbricati. Un patrimonio familiare valutato in diversi milioni di euro. La pericolosità sociale del sessantanovenne ex prestanome di Totò Riina sarebbe venuta meno, secondo i giudici, sul finire degli anni Novanta. Una valutazione emersa già nel 2016 e che è stata confermata dalla Corte d’Appello di Palermo, che ha respinto la richiesta della Procura. I giudici Antonio Caputo, Aldo De Negri e Giovanni Carlo Tomaselli scrivono: “Per gli anni presi in considerazione dal giudice della prevenzione (fino all’anno 1998) non è stata neppure dedotta una ricorrenza di elementi, anche solo episodici, che possano confermare il mantenimento della posizione di soggetto coinvolto con la consorteria mafiosa di quel territorio”. La vicinanza di Simonetti alla mafia sarebbe dunque circoscritta al periodo compreso tra i primi anni 80 e la metà degli anni Novanta. Nel suo curriculum ci sono, infatti, due condanne: la prima a 8 anni, risalente al 1983, per traffico di sostanze stupefacenti tra la Sicilia ed il Piemonte. Uscito dal carcere, Simonetti divenne prestanome di Riina. A rivelarlo furono i collaboratori di giustizia Giuseppe Monticciolo e Balduccio Di Maggio. Nel 1998 scattò così un primo sequestro di beni. Ma l’imprenditore agricolo collaborò alle indagini ed ammise parte dell’intestazione fittizia del patrimonio sequestrato. I giudici tennero anche conto della “posizione patrimoniale facoltosa” della famiglia Simonetti, che riottenne buona parte dei beni. Nel giugno del 2011 l’imprenditore finì però nuovamente in carcere con un’altra condanna a otto anni. Stavolta per estorsione aggravata. Simonetti, in tre gradi di giudizio, fu ritenuto colpevole di aver riscosso nel 1994 un’estorsione da 180 milioni di lire. A pagare la somma, destinata a Giovani Brusca, furono l’imprenditore Vincenzo Mirto ed il genero Ignazio Mustacchia. Simonetti, che ammise di aver ricevuto il denaro, ha sempre negato di averlo estorto. Disse invece di «aver messo una buona parola per salvare la vita ai due imprenditori». L’allora capo mafia di San Cipirello, Giuseppe Agrigento, aveva –infatti- deciso di eliminare Mustacchia. Sembra che al boss non fossero piaciuti alcuni commenti dopo un attentato incendiario ai danni dell’imprenditore Giuseppe Miceli. Su Mirto invece gravava il sospetto, da parte della cosca locale, che fosse un informatore delle forze dell’ordine. Grazie a quella “intermediazione” ai due venne risparmiata la vita e fatto anche uno sconto: da un miliardo di lire a duecento milioni. Venti dei quali furono anticipati proprio da Simonetti.

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