Inchiesta spese pazze all’Ars, diventano definitivi cinque proscioglimenti

La Cassazione respinge il ricorso della Procura. Si conclude favorevolmente per gli imputati una parte dell’inchiesta sulle cosiddette “spese pazze” del Parlamento regionale siciliano. Cinque di loro escono definitivamente dall’inchiesta perché erano stati prosciolti da tutti i casi contestati loro, e sono: Francesco Musotto, Nicola D’Agostino, Nunzio Cappadona, Marianna Caronia e Paolo Ruggirello.

Per gli altri sei è confermata l’assoluzione da alcuni casi di peculato, ma la loro posizione giudiziaria resta pendente perché ci sono altre ipotesi di peculato per cui li accusava la Procura dai quali non sono stati prosciolti. Sono i parlamentari Giulia Adamo, Rudy Maira, Giambattista Bufardeci, Livio Marrocco, Cataldo Fiorenza e Salvo Pogliese.

Regge davanti ai supremi giudici il ragionamento fatto dal giudice per le indagini preliminari Riccardo Ricciardi nei mesi scorsi. Non basta che i parlamentari non abbiano giustificato le spese fatte con i soldi dell’Ars. Per poterli processare e condannare il pubblico ministero dovrebbe dimostrare che davvero quei soldi siano stati spesi per fini non istituzionali. È questo il cuore della motivazione con cui Ricciardi lo scorso luglio aveva rinviato a giudizio alcuni ex capigruppo (per i quali Il processo è già in corso) e scagionato altri. 

Per potere contestare il reato di peculato agli onorevoli devono esistere due condizioni: “La prima è che vi sia prova del fatto che sono state effettuate da parte del parlamentare delle spese attraverso i contributi erogati dall’Ars in capo a ciascun gruppo parlamentare, mediante l’esibizione della relativa documentazione fiscale, contabile ed extracontabile (scontrini, fatture etc) che attesti quale spesa sia stata effettuata in concreto, per quale importo, in quale data e presso quale soggetto (ad esempio, esercizio commerciale, struttura alberghiera o altro)”. In questo caso, secondo il giudice, è “di tutta evidenza che l’onere della prova non può che gravare sulla pubblica accusa”. Devono essere i pm, insomma, a dimostrare che i soldi siano stati spesi. “La seconda condizione – si leggeva nella motivazione – è che vi sia prova del fatto che quella spesa sostenuta dal parlamentare regionale e comprovata dalla documentazione fiscale acquisita agli atti, sia stata diretta a perseguire un fine non rispondente a quello istituzionale per il quale era stato in precedenza erogato il contributo, essenzialmente legato al funzionamento del gruppo parlamentare che ne è stato il beneficiario”.

La mancata giustificazione della spesa, di per sé, dunque, “non può costituire prova di un utilizzo improprio dei finanziamenti”. Non basta il minimo comune denominatore dell’assenza di pezze d’appoggio per fare scattare il rato di peculato, ma il pm deve dimostrare come sono stati spesi i soldi pubblici. Tutto ciò vale in sede penale ma non in quella contabile. Lo sottolineava lo stesso Ricciardi e lo dimostrava il fatto che per alcuni ex capigruppo sono già arrivate le stangate della Corte dei Conti.

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