Bimbo morto, l’autopsia: avvelenato con i farmaci della madre
A causare la morte del piccolo Lorenz Renda è stata un’overdose di amitriptilina, un farmaco antidepressivo. Ad accertare che la notte del 13 luglio scorso il bambino di 5 anni, trovato morto ad Alcamo nel suo letto, è stato avvelenato è l’esito dell’autopsia effettuata all’istituto di medicina legale del Policlinico di Palermo dal professore Paolo Procaccianti, esperto tossicologo.
L’esame autoptico ha fugato ogni dubbio confermando che la morte di Lorenz è per la somministrazione in dosi elevate di gocce di Laroxyl, il farmaco assunto dalla madre, la trentatreenne messicana Aminta Altamirano Guerrero.
Dopo l’interrogatorio i sospetti si indirizzarono subito sulla donna che dal 15 luglio si trova al Carcere San Giuliano con l’accusa di “omicidio aggravato per aver cagionato la morte del figlio somministrandogli un medicinale antidepressivo in dosi massicce e con l’aggravante della premeditazione e dell’avere agito nei confronti di un discendente”.
A chiedere al gip la custodia cautelare fu il sostituto procuratore di Trapani Sara Morri. La difesa successivamente si era rivolta al Tribunale del riesame per chiedere l’annullamento del provvedimento cautelare, richiesta, però, respinta.
“Abbiamo un quadro indiziario forte” aveva detto, poco dopo il fermo della donna, il procuratore capo di Trapani Marcello Viola. Sin da subito la versione dei fatti fornita dalla madre di Lorenz, sia in casa che durante il lungo interrogatorio apparve inverosimile e incompatibile con le indagini. Un racconto che non ha trovato alcuna corrispondenza con gli elementi acquisiti e con un biglietto – una sorta di lettera testamento – trovato accartocciato nella borsa di Aminta e indirizzato al suo ex convivente e padre del bambino, Enzo Renda, trasferitosi in Germania e con il quale la donna aveva avuto una separazione conflittuale. Tra gli effetti personali della donna fu ritrovata anche una sorta di bambola voodoo.
Nella lettera Aminta manifestava, di suo pugno, l’intenzione di uccidere se stessa e il figlio, con il quale aveva un rapporto simbiotico, chiedendo che i loro corpi venissero risparmiati dall’autopsia che fossero cremati e addossando la colpa del terribile gesto al padre di Lorenz accusato, a suo dire, di maltrattamenti e di averla tradita.
Un progetto e una volontà omicida/suicida che Aminta, fortemente affetta da depressione, seguita dai servizi sociali e vicina alla parrocchia, aveva maturato da tempo e che sin dal mese di giugno aveva comunicato a una serie di amici e persone a lei vicine, non ultimo la sera del 13 luglio durante una concitata telefonata fatta all’ex convivente.
“Quella sera – dichiarò Renda agli inquirenti – Aminta mi telefonò più volte mentre ero a lavoro accusandomi, a torto, di avere una relazione con un’altra donna. Mi disse che voleva farla finita che non ce la faceva più e che aveva preso la sua decisione e che io avrei dovuto fare polvere (cremare, ndr) di loro due. Cercai di calmarla, presi comunque sul serio la telefonata. Tentai di richiamarla dalle 21,30 a mezzanotte ma non rispose. Poi alle 7,30 mi chiamo e mi disse gridando agitata Lorenz è morto e che aveva bevuto degli antidepressivi”.
La mattina del 14 luglio agli agenti di polizia giunti nell’appartamento di via Giovanni Amendola chiamati da una vicina e da una dipendente di un bar che aveva sentito la donna gridare aiuto dal balcone con il bambino tra le braccia, Aminta raccontò la versione di un incidente. Nel frattempo arrivò anche il personale medico del 118 che trovò il bambino con chiari segni di asfissia e per cui non ci fu nulla da fare.
Aminta raccontò, cadendo diverse volte in contraddizione, di avere messo a letto il bambino intorno alle 23 di avere assunto dieci gocce di Laroxyl, a cui aveva tolto tappo esterno e dosatore per facilitarne l’uscita, aggiungendo che mentre prendeva il medicinale il bambino le aveva chiesto di averne un po’ perché accusava mal di testa e di aver lasciato la boccetta aperta sul mobile della cucina. Poi disse che la mattina al risveglio aveva trovato il bambino privo di vita e dopo avere cercato di rianimarlo aveva chiamato aiuto. Agli investigatori del Commissariato di Alcamo che al momento del sopralluogo trovarono poggiata sul mobile della cucina solamente la scatola del psicofarmaco la donna non riuscì a fornire spiegazioni su dove potesse essere il medicinale. Durante le ricerche Aminta prelevò dalla spazzatura il flacone da cui mancava, secondo quanto riferì, circa “un dito” di medicinale e quindi disse di sospettare che il figlio durante la notte si fosse alzato e dopo aver preso dal mobile la boccetta avesse bevuto il contenuto gettando poi il flacone vuoto nella spazzatura.
Una versione che per il Tribunale del riesame “collide con ogni ricostruzione logica degli eventi e che non può ritenersi verosimile”. Difficile, per gli inquirenti, credere che il bambino svegliatosi nel cuore della notte e senza che la donna se ne accorgesse abbia potuto impossessarsi del flacone per ingerirne il contenuto e poi richiudere perfettamente la boccetta, dotata di chiusura di sicurezza, e gettarla nella spazzatura. A perizia tossicologica fu sottoposta anche la donna ma gli esami effettuati rilevarono la presenza del farmaco in dosi compatibili con l’uso terapeutico.
Secondo la Procura le indagini sono dunque da ritenersi sostanzialmente chiuse e si profila del tutto chiara la responsabilità dell’imputata.
FONTE Repubblica.it
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