Strage di Giardinello. La storia dell’eccidio raccontata da Pino Dicevi

Il 10 dicembre del 1893 è stata scritta una delle pagine più tristi della storia dell’Isola, in piccolo centro siciliano, vennero assassinate sette persone, con l’unica colpa di aver chiesto il rispetto dei loro diritti. Quella domenica di 120 anni fa, passò alla storia con il nome di “Strage di Giardinello”. Ce ne siamo già occupati ieri con un servizio sulle celebrazioni per l’anniversario ed anche giorni prima, ma torniamo sull’argomento –data l’importanza- con un approfondimento del professore Pino Dicevi, che ha curato le manifestazioni in ricordo delle vittime innocenti di una protesta pacifica trasformata in strage. Uomini, donne e bambini –racconta Dicevi- la domenica del 10 dicembre 1893, dopo la Santa Messa del mattino, si recarono davanti la Casa Comunale di Giardinello per protestare contro le elevate tasse e per il riconoscimento dei diritti umani e civili, tra cui il diritto all’acqua che dalla Sorgente Scorsone era stata deviata verso il feudo de “Lo Zucco” del duca D’Aumale, lasciando quindi a secco le fontanelle del paese. Ad autorizzare questo “abuso” sulla popolazione fu l’allora sindaco Angelo Caruso con il benestare del prefetto di Palermo. Alla vista dei manifestanti, il primo cittadino fece partire dalla sua abitazione -antistante il Municipio- le prime fucilate, che uccessero uno dei presenti e ne ferirono altri. Subito dopo le truppe di Montelepre, guidate dal tenente dei bersaglieri Cimino, fecero fuoco sulla folla, uccidendo altre sei persone. Un fatto gravissimo che spinse i dimostranti a sfondare il portone della Casa Comunale, a massacrare il messo comunale Nicosia e la moglie Francesca, che durante la protesta derisero i partecipanti, arrivando a gettare addosso a loro delle bacinelle d’acqua, stesso comportamento tenne le moglie del sindaco Caruso. La folla inferocita, per aver visto morire i suoi concittadini, distrusse in seguito le suppellettili del Municipio. Dopo la “Strage di Giardinello” –conclude Pino Dicevi, il tribunale militare, rinnegando ogni principio di giustizia, condannò Salvatore e Giuseppe Piazza, perché iscritti al fascio locale dei Lavoratori ma assolse Girolamo Miceli, capo delle guardie campestri, accusato da diversi testimoni di essere stato proprio lui a sparare sulla gente dalla finestra della casa del sindaco

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