Processo Golem, chiesti 200 anni di carcere

Oltre 200 anni di carcere sono stati chiesti dai pubblici ministeri della Dda di Palermo, Paolo Guido e Marzio Sabella, per i 13 imputati processati per mafia, estorsioni, danneggiamenti, favoreggiamento, dinanzi al Tribunale di Marsala nell’ambito del procedimento scaturito dall’operazione Golem 2 del 15 marzo del 2010. Alla sbarra, il super latitante Matteo Messina Denaro, castelvetranese, 51 anni, latitante da 20 anni, capo indiscusso della mafia trapanese per cui sono stati chiesti 30 anni, Maurizio Arimondi (16 anni), Calogero Cangemi (14 anni), Lorenzo Catalanotto (20 anni), Tonino Catania (21 anni), Giovanni Filardo (21 anni), Leonardo Ippolito (18 anni), Marco Manzo (6 anni), Nicolò Nicolosi (6 anni e 3 mesi), Vincenzo Panicola (16 anni), Giovanni Risalvato (25 anni), Filippo Sammartano (5 anni e 3 mesi), Giovanni Stallone (4 anni e 2 mesi). I pubblici ministeri nella loro requisitoria hanno ricostruito l’ultimo dei pezzi di storia riguardanti la latitanza del capo mafia e di come lui riusciva a collegarsi con i suoi complici. Le complesse attività di indagine e processuali, hanno consentito di individuare ruoli, strategie, modalità operative di Cosa nostra trapanese, proiettata ad assumere condotte illecite, guidata dal boss Matteo Messina Denaro, vertice della struttura colpita. Le richieste di condanna riguardano esponenti strategici delle famiglie mafiose di Campobello di Mazara e di Castelvetrano, storiche roccaforti del capomafia, da sempre “cosche” protagoniste delle più significative dinamiche mafiose nella provincia di Trapani. I soggetti hanno svolto un fondamentale ruolo nel sostegno alla latitanza di Messina Denaro, assicurandogli, tra le altre cose, il mantenimento di riservati canali di comunicazione con i componenti di vertice di Cosa nostra palermitana. L’azione di copertura è consistita anche nel garantire a Messina Denaro documenti d’identità falsi ma soprattutto nel realizzare una rete per garantire costanza ad una martellante azione estorsiva, richiesta di tangenti ad imprenditori locali. Intercettato dagli investigatori fu anche il sistema di “comunicazione postale” della mafia, ossia Messina Denaro con assoluta puntualità periodica provvedeva a garantire lo scambio di pizzini all’interno della cosca.

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