Omicidio piccolo Di Matteo. Confermati cinque ergastoli, 12 anni a Spatuzza

La Corte d’assise d’appello di Palermo ha confermato i cinque ergastoli inflitti in primo grado per il sequestro e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996 dopo quasi due anni di prigionia solo perchè figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo. La massima pena è stata inflitta al boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, per il capomafia trapanese latitante Matteo Messina Denaro, Francesco Giuliano, Salvatore Benigno e Luigi Giacolone. Confermata anche la condanna a 12 anni per il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, al quale è stata applicata l’attenuante speciale per i pentiti invece che quella generica riconosciutagli in primo grado. I giudici hanno anche aumentato i risarcimenti per la madre della vittima, cui andranno 300 mila euro (100 mila in primo grado) e per il fratello, che avrà 150 mila euro invece di 50 mila. Spatuzza oltre ad autoaccusarsi del delitto, ha puntato il dito contro gli ex amici raccontando cosa accadde il 23 novembre 1993, quando un commando di uomini d’onore travestiti da poliziotti, su ordine di Graviano, andò a prelevare il bambino che si allenava in un maneggio ad Altofonte. Fino alle dichiarazioni del collaboratore, i suoi cinque coimputati erano rimasti fuori da un’indagine che, nel tempo, ha portato a 42 condanne. Di quelle ore Spatuzza ricorda tutto: dalle urla di gioia del piccolo Giuseppe che credeva che i falsi agenti lo stessero portando dal padre, da mesi nascosto in una località protetta, al terrore da cui fu preso quando, legato e lasciato solo in un furgoncino, capì che il padre non l’avrebbe mai rivisto. “All’inizio urlava: ‘papà’ mio, amore mio”, ha raccontato Spatuzza durante il processo di primo grado. “Poi l’abbiamo legato come un animale e l’abbiamo lasciato nel cassone – ha spiegato – Lui piangeva, siamo tornati indietro perché ci è uscita fuori quel poco di umanità che ancora avevamo”. Il bambino era terrorizzato. “Ci chiamò dicendo che doveva andare in bagno – ricorda Spatuzza – ma non era vero. Aveva solo paura. Allora tornammo indietro per rassicurarlo e gli dicemmo che ci saremmo rivisti all’indomani, invece non lo rivedemmo mai più”. Solo dopo anni Spatuzza saprà da Giovanni Brusca, tra gli ideatori del rapimento che avrebbe dovuto convincere Santino Di Matteo a interrompere la collaborazione con la giustizia, che il bambino era ancora vivo. “Abbiamo ancora la carta”, gli dice Brusca. Ma gestire la prigionia del piccolo Giuseppe, spostato in lungo e in largo tra Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta, non era facile: per questo a un certo punto, capito che il padre non avrebbe mai ritrattato, i boss decisero di assassinarlo. Indebolito dalla lunghissima prigionia Giuseppe morì subito: gli strinsero una corda attorno al collo, poi ne sciolsero il corpo nell’acido.

(gds.it)

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