Mafia, fatta luce sull’omicidio dell’agente penitenziario Calogero Di Bona
Fatta luce, dopo 33 anni, sull’omicidio del maresciallo Calogero Di Bona, vicecomandante degli agenti di custodia del carcere Ucciardone. La Dia di Palermo ha individuato mandanti ed esecutori. Ad uccidere Di Bona il 28 agosto del 1979 sarebbero stati due esponenti di spicco di cosa nostra: Salvatore Lo Piccolo, 70 anni, ergastolano, come il boss Salvatore Liga, 81 anni, attualmente agli arresti ospedalieri per motivi di salute. Per loro l’accusa è di sequestro, omicidio premeditato e occultamento di cadavere. L’agente di custodia, attirato in un tranello, venne strangolato e bruciato dentro un forno, nella zona residenziale di Città Giardini. Di Bona, già riconosciuto fra le vittime di mafia, scomparve una sera di fine agosto del 1979. Aveva 35 anni e tre figli. Tre decenni dopo, gli autori del macabro delitto, verranno processati, grazie all’ostinazione dei familiari della vittima, che mai hanno smesso di cercare la verità chiedendo la riapertura dell’inchiesta sulla morte del padre, dopo che i familiari di Di Bona, su internet hanno scovato per caso le dichiarazioni del pentito Gaspare Mutolo. I figli di Calogero Di Bona, Giuseppe ed Ivan lanciarono un appello alla magistratura sulle colonne della rivista S e successivamente, il pool sui delitti irrisolti, di cui fanno parte i pubblici ministeri Lia Sava e Francesco del Bene, coordinati dall’aggiunto Vittorio Teresi subentrato a Ignazio De Francisci, oggi avvocato generale, hanno accolto la loro richiesta. Mutolo, killer a servizio di Totò Rina e Saro Riccobono, il 7 giugno del 1994, chiamò in causa Salvatore Lo Piccolo, che di Riccobono, boss di Partanna Mondello, era stato l’autista, sostenendo che il capomafia di San Lorenzo, che allora iniziava la sua ascesa criminale, avrebbe avuto un ruolo nella lupara bianca che inghiottì Di Bona, vicecapo dei secondini dell’Ucciardone. I Magistrati, cos’, sono tornati ad interrogare diversi collaboratori di giustizia, vecchi e nuovi, facendo riemergere la verità. Ai magistrati è toccato ascoltare l’agghiacciante ricostruzione di un delitto. Il pomeriggio del 28 agosto 1979, il maresciallo Di Bona stava prendendo un caffè nella piazza di Sferracavallo, quando fu avvicinato da due persone, con cui si allontanò. L’ultimo a vederlo fu un bambino di dieci anni, che adesso è un uomo e che di recente è stato riascoltato. Da quel giorno di agosto, non si è saputo più nulla di Calogero Di Bona. Salvatore Lo Piccolo, uomo d’onore della famiglia di Tommaso Natale, sapendo che Di Bona frequentava un bar ristorante di Sferracavallo, lo avrebbe avvicinato per condurlo con un pretesto presso il fondo di Tatuneddu, così come era soprannominato Salvatore Liga. Oltre a lui, sarebbero stati presenti Salvatore MIcalizzi, Salvatore Lo Piccolo, Bartolomeo e Antonino Spatola e Rosario Riccobono”. Tutta gente morta tranne Lo Piccolo e Liga. Gaspare Mutolo ha aggiunto, di recente, i particolari di quella riunione di morte in un casa di fondo De Castro, allo Zen. Quel giorno di agosto del 1979, il maresciallo Di Bona fu sottoposto a un interrogatorio, su mandato del potente capomafia di Partanna Mondello Rosario Riccobono: i boss volevano sapere i nomi degli agenti di custodia che avevano spedito una lettera anonima ai giornali cittadini, per denunciare la situazione dell’Ucciardone. Erano i tempi in cui i capi di Cosa nostra avevano trasformato la nona sezione del carcere palermitano in un esclusivo club, che aveva anche una succursale, il reparto infermeria, con la compiacenza di alcuni agenti. “Riccobono – ha detto Mutolo – chiese a Di Bona notizie sulla situazione carceraria ed in particolare sugli autori delle lettere anonime con le quali si insultavano i mafiosi”. Poi, “gli si pose una corda al collo”. Gaetano Grado ha concluso il racconto dell’orrore : “Quando l’indomani so andati allo Zen mi hanno raccontato solo che era tutto apposto e che il lavoro fatto da Tatuneddu Liga… quando c’era di bisogno di strangolare qualche persona… diciamo che quasi quasi si facevano sempre da Tatuneddu Liga, perché poi lui gli scioglieva nell’acido .. omissis… mi hanno detto che l’hanno messo dentro il forno di Tatuneddu Liga, il forno, un forno dov’è che si .. lui faceva il pane…”. . “Di Bona fu strangolato e il suo cadavere venne arso su una graticola, secondo un rituale che molte altre volte si era tenuto”, ha aggiunto il pentito Gaspare Mutolo.
Solo dopo la scomparsa del maresciallo, il ministero della Giustizia si decise a mandare un’ispezione, mente in Procura giunse un esposto firmato da un gruppo di agenti di polizia penitenziaria che fecero un nome, quello di Michele Micalizzi, 30 anni, di Pallavicino, genero di Riccobono che deve scontare 24 anni per l’omicidio dell’agente Cappiello, ucciso il 2 luglio del 1975. Micalizzi, avevano scritto gli agenti, sarebbe stato l’autore del pestaggio di un collega, tale Angiullo, avvenuto all’interno del carcere. Un fatto gravissimo per il quale non venne stilato neppure un rapporto. Forse perché Micalizzi attendeva che si concludesse il processo d’appello per omicidio che lo vedeva imputato e i termini di custodia cautelare stavano scadere. L’episodio del pestaggio avrebbe potuto “trattenerlo” in carcere. Nei giorni successivi, il sostituto procuratore Giuseppe Prinzivalli ascoltò tutte le persone coinvolte nella vicenda, Di Bona compreso. Le indagini, però, si chiusero con un nulla di fatto. Adesso, dopo la riapertura dell’inchiesta, le indagini hanno dimostrato che a ordinare l’uccisione di Di Bona fu il sanguinario capo mandamento di Tommaso Natale Rosario Riccobono, 83 anni, successivamente fatto sparire col metodo della ‘lupara bianca’, che oltre agli attuali indagati coinvolse altri mafiosi oggi deceduti, nella progettazione ed esecuzione dell’omicidio. Micalizzi fu condannato, il 23 novembre ’79 a otto mesi perchè riconosciuto colpevole del reato di lesioni in danno di un agente penitenziario, anche se non si fa menzione alcuna dell’episodio che avrebbe scatenato le ire di Riccobono. Ma le attuali indagini dimostrano che l’omicidio risulta comunque correlato alla vicenda Micalizzi, che risale al 6 agosto ’79, quando Di Bona fu dirottato presso la famigerata IV sezione del carcere – che fungeva anche da infermeria – dove si trovavano i mafiosi più pericolosi. La giovane guardia, constatato che quei reclusi si muovevano troppo liberamente, aveva provato a far rientrare alcuni nelle loro celle, provocando una violenta reazione che costrinse Di Bona a recarsi al pronto soccorso. Sarebbe stato naturale denunciare l’accaduto, ma così non fu. La verità solo dopo 33 anni.