CASO GIULIANO. UN GIORNALISTA AGRIGENTINO CONDIVIDE CON NOI LE SUE RIFLESSIONI

Nel 2016 cadrà il segreto di stato sulle carte conservate negli archivi dei ministeri dell’interno e della difesa che custodiscono probabilmente “inconfessabile” su Salvatore Giuliano, il bandito di Montelepre, e ancora per sei anni continueremo a chiederci se quel ragazzo datosi alla macchia alla giovane età di appena vent’anni è stato un bandito o un guerrigliero, sperando di trovare ancora qualcosa che non sappiamo e che magari ci aiuti a sapere. E’ il pensiero di Pino Sciumè, giornalista di Favara, nell’agrigentino, che ha voluto condividere con la nostra redazione le sue riflessioni sul vecchio e moderno caso Giuliano. Come siciliano e cittadino di questa Repubblica –scrive Sciumè nella lettera che ci ha inviato- non mi sono mai sentito soddisfatto della verità cosiddetta ufficiale che sin da quel 5 luglio 1950 lo Stato ci ha voluto far credere. Con l’aggravante di metterci una pietra sopra con il Segreto di Stato che sarà “svelato” tra sei anni, nel 2016. Sono riuscito –dice Sciumè- in tanti anni a procurarmi diverse biografie, articoli di giornali, i tre film girati sulla vicenda, servizi e approfondimenti televisivi. Giudizi di storici, studiosi, gente comune, giornalisti d’inchiesta. Su tutti –secondo il giornalista agrigentino- due sono i denominatori comuni che sono presenti nell’affaire Salvatore Giuliano. Da una parte il fascino, la popolarità, l’interesse che ha suscitato e che ancora continua a suscitare. Dall’altra il dubbio che a distanza di sessant’anni continua a far parlare o tacere. Un tempo così lungo –prosegue Sciumè- non è stato concesso nemmeno ai discendenti di Casa Savoia, il cui rientro in Italia fu giustificato dal radicamento irreversibile della Repubblica. Il ragazzo di Montelepre evidentemente è stato ritenuto più pericoloso del fantasma della monarchia. La pietra tombale su Giuliano è stata apposta dal processo di Viterbo, chiamato ad emettere una sentenza sulla strage di Portella, iniziato pochi giorni prima della sua morte. Pur nel rispetto di quella Corte che emise la pesante condanna –secondo Sciumè- sono tuttora risibili, in un linguaggio che un paese democratico consente, alcune decisioni che furono estromesse dal dibattimento. A cominciare dalle perizie balistiche dei proiettili estratti dai corpi dei poveri contadini morti o feriti. Accertata la posizione della squadra di Giuliano, com’è possibile che dai proiettili estratti non fu presa in considerazione la loro traiettoria orizzontale, ad altezza d’uomo. I militari combattevano da circa quattro anni contro Turiddu e appare inverosimile che non conoscessero il tipo di armi che utilizzava e i proiettili che usava. Come mai non fu fatta una comparazione accurata sul calibro dei bossoli trovati sia sui corpi per parsi per terra? Ed ancora: il reperto riferì di circa novecento bossoli rinvenuti, senza contare quelli trovati negli anfratti o conficcati nelle pietre che avrebbero fatto salire il numero a 1200 o 1500 bossoli?. E’ pensabile che dodici persone armati di fucile 91 e di qualche mitraglietta avesse potuto sparare tutti quei colpi nel giro di una decina di minuti? I processi –scrive ancora Sciumè nella sua riflessione- si basano su fatti e testimonianze ma non mi risulta che abbiano analizzato il contesto nel quale questi fatti avvennero. In Sicilia la seconda guerra mondiale terminò con lo sbarco delle truppe alleate nel 1943. In Italia ne 1945. I siciliani rimasero in balia di se stessi e di tanti furbi che durante il fascismo furono messi in letargo. Fu il separatismo l’unica fiammella che riuscì a dare un barlume di speranza. Un movimento, un’idea mai sopita in Sicilia fin dal 1861, anno in cui l’isola fu unificata con la forza del piombo e il sequestro delle sue ricchezze al resto d’Italia con cui nulla aveva a che spartire culturalmente e storicamente. Adesso –continua Pino Sciumè- il Procuratore Aggiunto di Palermo Antonio Ingroia ha preso la decisione di aprire la tomba con su scritto il nome di Salvatore Giuliano. Ancora dubbi, ma stavolta un possibile accertamento che quei resti non appartengano al giovane Turiddu, farebbero tremare la credibilità dello Stato e le ossa dei vari Scelba, Ugo Luca, Ettore Messana, Antonio Perenze e altri che da quella brutta storia hanno tratto onori e promozioni. Il conflitto a fuoco inscenato nel cortile dell’avvocato Di Maria a Castelvetrano –racconta Sciumè- il corpo morto mai visto dai familiari di Giuliano, l’autopsia eseguita in fretta e furia in quel freddo obitorio. Sta di fatto che è lecito pensare –conclude il giornalista- che il processo ha preso una piega che ha portato gli imputati direttamente alla pena dell’ergastolo. Sono convinto che si parlerà ancora per molto di questa storia e chissà che non vengano accorciati i tempi per aprire tutte le carte e conoscere la verità.

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