MAFIA. DDA, E’ CACCIA AL TESORO DEL BOSS PENTITO DI SAN GIUSEPPE JATO GIOVANNI BRUSCA

Il boss Giovanni Brusca, uno degli esecutori materiali della strage di Capaci poi diventato collaboratore di giustizia, è indagato dalla Direzione distrettuale Antimafia di Palermo per riciclaggio, fittizia intestazione di beni e tentata estorsione aggravata. I carabinieri del Gruppo di Monreale sono entrati nel carcere romano di Rebibbia nel cuore della notte, con un ordine di perquisizione firmato dalla Procura di Palermo. Destinazione, la cella super protetta dell’ex capomafia pentito di San Giuseppe Jato che ha confessato di avere azionato il telecomando dell’esplosivo per Giovanni Falcone e di avere ucciso più di 150 persone. Il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e i sostituti Francesco Del Bene, Lia Sava e Roberta Buzzolani contestano a Brusca di aver taciuto su gran parte del suo patrimonio, che in questi anni avrebbe continuato a gestire fra il carcere e i permessi premio, concessi ogni 45 giorni. L’indagine è scaturita da una serie di intercettazioni effettuate dagli investigatori nell’ambito della cattura del latitante Domenico Raccuglia che hanno fatto emergere la disponibilità, da parte della famiglia Brusca, di beni che non sono ancora stati individuati. E’ lo stesso pentito ad ammetterlo in una lettera inviata a un prestanome, fotocopiata dagli inquirenti prima che arrivasse a destinazione: “Ho mentito spudoratamente”, questo scrive il collaboratore a proposito dei suoi beni. Brusca sarebbe arrivato anche a minacciare un suo ex prestanome per tornare a controllare un’azienda. Ecco perché adesso gli viene rivolta l’accusa di tentata estorsione, contestata con l’aggravante di avere commesso il reato col metodo mafioso. Le perquisizioni dei carabinieri sono scattate in contemporanea anche nella abitazioni dei familiari del collaboratore e di alcuni insospettabili prestanome, fra Palermo, Milano, Chieti, Rovigo e la località segreta dove abita la moglie di Brusca. A quanto ammontino le ricchezze del pentito non è ancora chiaro: da alcuni mesi, gli inquirenti indagano in gran segreto, anche attraverso alcune intercettazioni. Così, hanno ascoltato dalla viva voce di Brusca affari e trattative segrete per la gestione del suo patrimonio, in cui figurerebbe pure un’azienda di San Giuseppe Jato. Il pentito terrebbe nascoste in Sicilia persino delle opere d’arte, forse rubate: da questa mattina, i carabinieri del Gruppo di Monreale le stanno cercando in provincia di Palermo. Una prima perquisizione nella casa della moglie di Brusca ha portato al ritrovamento di 188 mila euro in contanti. Giovanni Brusca, 53 anni, è in carcere dal 20 maggio 1996. Oltre che per la strage di Capaci nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesco Morvillo e tre agenti di scorta, il boss e’ stato condannato come mandante del sequestro e dell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino che insieme a Brusca era tra gli organizzatori dell’attentato a Falcone. Già qualche giorno dopo la cattura, aveva accettato di parlare con i poliziotti della squadra mobile di Palermo: offrì spunti determinanti per l’arresto di due padrini latitanti, Carlo Greco e Pietro Aglieri. Per i magistrati, fu un segnale di disponibilità importante. Il 26 luglio, Brusca pronunciò le sue prime dichiarazioni a verbale. Ma erano infarcite di omissioni e di troppe bugie, per coprire alcuni complici. Ci vollero tre anni prima che il boia di Capaci fosse ammesso al programma di protezione. E ancora oggi, Giovanni Brusca è indicato come “reticente” nelle sentenze che hanno affrontato il delicato nodo dei rapporti fra mafia e politica in concomitanza con le stragi del 1992. Per la Procura di Palermo, ma anche per quella di Caltanissetta, Brusca resta comunque un testimone fondamentale: è stato lui, per primo, a svelare l’esistenza del papello e della trattativa durante la stagione degli eccidi Falcone e Borsellino. Per questa ragione, l’ex boss è stato citato dai pubblici ministeri al processo che vede imputato il generale Mario Mori di avere favorito la latitanza del capomafia Bernardo Provenzano. Il 22 maggio scorso, in aula, Brusca ha dichiarato: “Riina mi disse il nome dell’uomo delle istituzioni con il quale venne avviata, attraverso uomini delle forze dell’ordine, la trattativa con Cosa nostra”. Ma ha subito precisato di non potere ripetere il nome pubblicamente, perché sarebbero in corso delle indagini sulle sue rivelazioni. Poi, il nome è trapelato comunque attraverso indiscrezioni di stampa. E’ quello dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, che ha subito replicato: “Se Riina, nel natale 1992, parlava con i suoi complici di un messaggio, quel messaggio fu, tre settimane dopo, il suo arresto, da me più volte sollecitato anche pubblicamente alle forze dell’ordine”. Giovanni Brusca rischia adesso di essere espulso dal programma di protezione e di perdere la possibilità della scarcerazione anticipata. I magistrati di Palermo, guidati dal procuratore Francesco Messineo, lo interrogaranno in carcere oggi pomeriggio, per chiedergli quale sia la verità che ancora nasconde. Era ad un passo dall’ottenere gli arresti domiciliari, ora la sua posizione passerà al vaglio della commissione del Viminale sui pentiti: a Giovanni Brusca potrebbe essere tolto il programma di protezione. E’ la conseguenza delle indagini avviate dalla procura antimafia di Palermo e dai carabinieri del gruppo di Monreale che accusano Brusca, il boia della strage di Capaci, capo del mandamento di San Giuseppe Jato. Dalla sua cella, che è stata perquisita, Giovanni Brusca avrebbe allungato le mani sul territorio tramite gli uomini di Domenico Raccuglia, arrestato lo scorso 15 novembre a Calatafimi, nel Trapanese, che ne rappresenta il continuatore. Intanto, della vicenda si discute ai massimi livelli. “Ai tempi dell’arresto Brusca non era obbligato a rivelare tutti i beni”. Lo ha detto Pierluigi Vigna, ex procuratore antimafia, che condusse l’interrogatorio dell’ex capo del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, arrestato nel 1996, sostenendo che sarebbe possibile l’esistenza di un tesoro nascosto di Brusca gestito dal carcere. “Nel ‘96 – ha detto a Radio 24 – non era entrata ancora in vigore la legge, in vigore solo dal 2001, che disponeva che il collaboratore dovesse indicare tutti quanti i beni che aveva a sua disposizione oppure beni che sapeva a disposizione di altri mafiosi. L’essere ammesso al programma di protezione non esclude che si possano poi fare altre indagini”. “Le carceri – aggiunge Vigna – sono sempre luoghi dai quali si può trasmettere. Nonostante i vari 41 bis si trova sempre da parte del detenuto il modo di lanciare messaggi o durante i colloqui anche se avvengono attraverso un vetro, con la gestualità che è propria dei mafiosi siciliani o addirittura servendosi di qualche detenuto comune, o ancora quando si vedono nel corso delle udienze. E’ vero che c’é l’interrogatorio a distanza, con mezzi telematici, attraverso la tv e così via, attraverso collegamenti tra l’aula di un’udienza e il luogo dove il soggetto è detenuto, ma spesso vi sono più detenuti in coda da sentire, per cui qualche messaggino può derivare”. Quale presidente della Commissione sui Programmi di Protezione, ho chiesto alla Direzione distrettuale antimafia una informativa dettagliata su quanto riportato dalle agenzie di stampa relativamente al collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, ai fini della valutazione della sua posizione”.
Lo fa sapere il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano.
“In termini generali, e prescindendo dal caso specifico – aggiunge Mantovano – la consumazione di gravi reati dopo l’avvio della collaborazione impone la revoca del programma di protezione. Ricordo che una norma introdotta dalla legge 45/2001 impone a ogni collaboratore di giustizia che sottoscrive l’accordo che è alla base del programma di dichiarare i beni illecitamente percepiti di cui dispone, direttamente o indirettamente; tale impegno è stato assunto da Giovanni Brusca all’atto del rinnovo del suo programma, nel 2005″.

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