MAFIA. I SEGRETI DI CIANCIMINO
La strage di Ustica, Gladio e il caso Moro, gli oscuri contorni dell’omicidio dell’ex presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, la “trattativa” tra lo Stato e la mafia e, sullo sfondo, la febbrile attività dei Servizi Segreti, protagonisti dei principali misteri italiani degli ultimi 30 anni. Sembra la trama di un giallo la lunga storia raccontata ai magistrati da Massimo Ciancimino, per anni ombra del padre, don Vito, longa manus della cosca corleonese nella politica. Un rapporto strettissimo, il loro, che avrebbe spinto l’ex esponente Dc a mettere il figlio a parte di scottanti segreti, ora trascritti in lunghi verbali di interrogatorio depositati agli atti del processo al generale dei carabinieri Mario Mori. Misteri del passato, ma anche rivelazioni sul presente zeppe di omissis, quelle del testimone, che parla anche di una presunta tangente data dall’imprenditore Romano Tronci all’ex ministro Enrico La Loggia e di una somma di denaro consegnata, dallo stesso Ciancimino, al senatore del Pdl Carlo Vizzini attraverso il tributarista Gianni Lapis. Sindaco nella mani di Cosa nostra, unito da amicizia e stima al boss Bernardo Provenzano, ma capace di mantenere buoni rapporti anche con Totò Riina, l’anima stragista delle cosche, don Vito, dagli anni ’80, è stato legato a doppio filo ai Servizi. Tanto da essere contattato e interpellato su vicende di primaria importanza: dalla strage del DC9 di Ustica, quando all’ex sindaco si chiese di coprire il ruolo della Francia nell’abbattimento dell’aereo dell’Itavia, al caso Moro. In occasione del sequestro dello statista democristiano – racconta massimo Ciancimino ai pm – gli 007 avrebbero invitato il padre a fare pressioni su Provenzano affinchè la mafia non desse un contributo alla liberazione del politico. E ancora i Servizi dietro all’omicidio di Piersanti Mattarella, ucciso a Palermo il 6 giugno del 1980. Un omicidio, avrebbe detto Provenzano a Ciancimino, fatto per fare un favore a qualcuno. Ma l’indicazione generica degli apparati di sicurezza trova una concretezza quando il figlio di don Vito parla della trattativa: il patto tra Stato e mafia avviato dopo la strage di Capaci e proseguito per anni. Lì lo 007 ha un nome. Anzi due: “Carlo” o “Franco”, il teste non ricorda bene. Un signore distinto che, prima in veste defilata, poi da protagonista, partecipa allo scambio tra Cosa nostra e le istituzioni. Due sarebbero state le fasi. Diversi gli interlocutori. Nella prima a trattare sarebbero stati i vertici dei carabinieri del Ros, per conto delle istituzioni – i Servizi avrebbero garantito a Ciancimino che i ministri Rognoni e Mancino erano a conoscenza della cosa – e Totò Riina. In mezzo ci sarebbe stato l’ex sindaco, contattato, dal capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno e dal vicecomandante del Ros Mario Mori, per i suoi rapporti col boss corleonese. Lo Stato, scosso dall’eccidio di Capaci, avrebbe chiesto il suo intervento in un percorso che avrebbe dovuto portare alla consegna dei latitanti mafiosi. Riina avrebbe risposto col papello: l’elenco con le richieste delle cosche, che lo stesso Ciancimino avrebbe giudicato irricevibili. La trattativa, racconta Massimo, a quel punto avrebbe avuto uno stallo. E sarebbe ripresa quando lo Stato era in ginocchio: dopo la strage di via D’Amelio, luglio del 1992. Allora, però, gli interlocutori sarebbero stati diversi. L’ex sindaco che avrebbe trattato per Bernardo Provenzano, lo stratega della sommersione di Cosa nostra, – i due si sarebbero incontrati più volte a Roma anche quando il capomafia era latitante – e il signor Franco. E nella posta in gioco ci sarebbe stata la cattura di Riina, che il 15 gennaio del 1993 venne arrestato. A portare l’Arma al covo sarebbe stato Provenzano, che avrebbe indicato il nascondiglio in alcune mappe di Palermo, fatte avere agli inquirenti proprio dall’ex sindaco. Il racconto sulla trattativa di Massimo si ferma qui perchè, quasi contestualmente, l’ex politico torna in carcere, “nonostante – dice il figlio – il contributo dato all’arresto del boss”. Ma il gioco, a dire del testimone, che riferisce le parole del padre, sarebbe continuato con altri referenti: Marcello Dell’Utri, spiega. L’unico cavallo di razza a cui, secondo don Vito, la mafia a quel punto poteva fare riferimento.